|
|
Книги издательства «Sellerio editore»
|
Orgoglio, patriottismo, odio, amore: passioni pure e antiche si mescolano e si scontrano tra loro, intorbidate più che raffrenate dal senso, anch'esso antico, di reticenza e onore. Villa Spada, dimora signorile di un paesino a pochi chilometri dal Piave, nei giorni compresi tra il 9 novembre 1917 e il 30 ottobre 1918: siamo nell'area geografica e nell'arco temporale della disfatta di Caporetto e della conquista austriaca. Nella villa vivono i signori: il nonno Guglielmo Spada, un originale, e la nonna Nancy, colta e ardita; la zia Maria, che tiene in pugno l'andamento della casa; il giovane Paolo, diciassettenne, orfano, nel pieno dei furori dell'età; la giovane Giulia, procace e un po' folle, con la sua chioma fiammeggiante. E si muove in faccende la servitù: la cuoca Teresa, dura come legno di bosso e di saggezza stagionata; la figlia stolta Loretta, e il gigantesco custode Renato, da poco venuto alla villa. La storia, che il giovane Paolo racconta... |
|
«Non è, questo, un romanzo d'ambiente; di costume. Non è un romanzo storico. È una potente azione narrativa. Se nel gioco degli scacchi l'obiettivo finale è catturare il re, le modalità operative e di ricerca di questa opzione strategica forzano il silenzio e le tenebre della storia, per affrontare il mistero di unombra, penetrare nelle tante maschere di un volto che si può pensare ma non conoscere, catturare la personalità artificiosa di un protagonista di eventi reali che con infame talento si evolve su se stesso e sotto più nomi si tramuta; e restituire, infine, alle necessità del racconto, il lato oscuro, la metà notturna e fosforica della civiltà dell'Umanesimo raggiante di cultura. Qui Camilleri gioca a scacchi con l'imponderabile. Le strade del suo personaggio si moltiplicano, si confondono, si scambiano l'una con l'altra. Partono dalla giudecca di Caltabellotta, in Sicilia, e lungo il Quattrocento si inoltrano nei labirinti delle capitali, delle corti piccole e grandi...» |
|
«Un giornalista viene ucciso nel freddo Carnevale del 1875. Diciassette pugnalate, lui solo nella redazione del quotidiano «La Capitale» che dirige. E Raffaele Sonzogno, nipote del fondatore della grande casa editrice: milanese, uomo della sinistra senza timori reverenziali e senza sotterfugi, è venuto a Roma a fare la sua parte nella lotta per le imminenti decisive prove elettorali. Il delitto si presenta subito ambiguo: da un lato, sembra la congiura di una banda scalcinata della malavita di Trastevere; dall'altro potrebbe essere la coda di una scandalosa storia di adulteri. Ma entrambe le ipotesi sembrano condurre a mandanti ben più in alto nella gerarchia sociale. Indagano un onesto delegato di polizia e il giovane cronista Filandro Colacito: dietro di loro, però, vegliano i superiori — forse per insabbiare, forse per depistare. Sono gli ultimi mesi del potere della Destra storica, già si profila all'orizzonte il governo della Sinistra. Due diverse concezioni dell'Italia, due modi di rapportarsi al popolo e di guardare verso i tempi moderni. E quanto più sono autoritari e inesorabili i modi del morente regime, tanto più spregiudicati gli esperimenti di affari e clientela del gruppo emergente assetato di novità e sospinto da ceti fino a ieri esclusi. Di questa Roma, già dominio del Papa Re e divenuta palcoscenico di una rivoluzione all'italiana, «I sicari di Trastevere» è una versione in nero, potremmo dire che ne è il «romanzo criminale».» |
|
«Semisepolto in mezzo a una pista sciistica sopra Champoluc, in Val d'Aosta, viene rinvenuto un cadavere. Sul corpo è passato un cingolato in uso per spianare la neve, smembrandolo e rendendolo irriconoscibile. Poche tracce lì intorno per il vicequestore Rocco Schiavone da poco trasferito ad Aosta: briciole di tabacco, lembi di indumenti, resti organici di varia pezzatura e un macabro segno che non si è trattato di un incidente ma di un delitto. La vittima si chiama Leone Miccichè. È un catanese, di famiglia di imprenditori vinicoli, venuto tra le cime e i ghiacciai ad aprire una lussuosa attività turistica, insieme alla moglie Luisa Pec, un'intelligente bellezza del luogo che spicca tra le tante che stuzzicano i facili appetiti del vicequestore. Davanti al quale si aprono tre piste: la vendetta di mafia, i debiti, il delitto passionale. Quello di Schiavone è stato un trasferimento punitivo. È un poliziotto corrotto, ama la bella vita. Però ha talento. Mette un tassello dietro l'altro nell'enigma dell'inchiesta, collocandovi vite e caratteri delle persone come fossero frammenti di un puzzle. Non è un brav'uomo ma non si può non parteggiare per lui, forse per la sua vigorosa antipatia verso i luoghi comuni che ci circondano, forse perché è l'unico baluardo contro il male peggiore, la morte per mano omicida («in natura la morte non ha colpe»), o forse per qualche altro motivo che chiude in fondo al cuore.» |
|
«Il vicequestore sorrise nel pensare alla somiglianza che sentiva tra lui e quel cane da punta». Rocco Schiavone ha la mania di paragonare a un animale ciascuna delle fisionomie umane che gli si para davanti. Ma più che il setter che gli suscita quell'accostamento, lui stesso fa venire in mente uno spinone, ispido, arruffato e rustico com'è: pur sempre, però, sottomesso all'istinto della caccia. È uno sbirro manesco e tutt'altro che immacolato, romano di conio trasteverino, con una piaga di dolore e di colpa che non può guarire. Ad Aosta, dove l'hanno trasferito d'ufficio, preferirebbe tenere le sue Clarks al riparo dall'acqua e godersi i suoi amorazzi, che non imbarcarsi in un'altra inchiesta piena di neve. Una donna, una moglie che si avvicinava all'autunno della vita, è trovata cadavere dalla domestica. Impiccata al lampadario di una stanza immersa nell'oscurità. Intorno la devastazione di un furto. Ma Rocco non è convinto. E una successione di coincidenze e divergenze...» |
|
C'è una rapina nella casa di uno scrittore molto noto; col bottino, sparisce il computer in cui è salvato il suo ultimo romanzo non ancora consegnato alla casa editrice e incautamente non conservato in altro modo. Da questo momento il file comincia a scivolare come argento vivo sul piano accidentato della sua avventura, e si insinua, imprendibile e vivificante come il metallo liquido degli alchimisti, nel tran tran quotidiano dei tanti e diversi protagonisti. Ognuno dei quali sarebbe per sorte lontanissimo dagli altri, ma si trova coinvolto occasionalmente a causa della deviazione che quel manoscritto ha impresso nella sua esistenza. Il grande scrittore e la moglie; il giovane ingegnere a tempo determinato che lotta con la vita insieme alla affannata compagna; la bella agente di polizia, che conduce l'indagine in competizione con il laido superiore; la banda dei balordi; il tecnico appena disoccupato che c'è capitato per caso; il vecchio editore e la giovane editor. Questa varietà di personaggi... |
|
«Sergej Dovlatov è uno dei più conosciuti scrittori russi contemporanei. Insofferente nei confronti di ogni forma di coercizione del potere ebbe non pochi problemi nell'ex URSS che rappresentò in una specie di epos al contrario popolato di personaggi balordi, di figure strampalate, capaci di un eroismo di bassissima lega, ma umane e simpatiche. Lo stile di Dovlatov prosegue la grande tradizione dell'umorismo russo calato nella contraddittorio periodo che condurrà nel 1991 alla dissoluzione dello stato Sovietico. Opera esemplare in questo senso è La valigia, pubblicata da Sellerio, in cui un numero incredibile di figure strampalate concorrono a creare un panorama umano decadente, ma non per questo meno affascinante. Un libro «caldo, vivo e molto divertente» come sostengono Carlo Fruttero e Franco Lucentini.» |
|
Il genio di Dovlatov, uno dei grandi umoristi della letteratura russa, consisteva nella capacità di sentire e di esprimere la paradossalità universale. La quotidianità dell'esistenza dell'uomo sovietico, per esempio, ma anche l'american way of life come vissuta da un emigrato di ultima generazione venuto in America per poter pubblicare, fino al paradosso connaturato in uno scarafaggio (che lui diceva di aver trovato in America per la prima volta). Di conseguenza, i suoi protagonisti erano lui stesso, in primo luogo, e la sua esistenza di anarchico drop out nelle maglie ormai rilasciate dell'ultima URSS o alle prese con le strane mistiche capitalistiche del nuovo mondo della libertà; e poi gli stralunati artisti e vagabondi suoi compagni. Una specie di perenne generazione beatnik di matrice e cultura sovietica a cui ha dato l'immortalità, che non può esistere più dopo la fine dell'Unione Sovietica, ma costituisce un bacino illimitato di umorismo e di storie non meno della burocrazia zarista immortalata da Gogol'. Con la particolarità che Dovlatov poté rappresentarla, per così dire, dagli Urali all'Atlantico, nell'atto di arrangiarsi in URSS come in America, dopo l'emigrazione. |
|
«Anarchico, vagabondo, individualista, solidale con ogni eversione solitaria: le narrazioni di Dovlatov posseggono un'incantevole forza di immedesimazione per il lettore. Voce narrante e protagonista insieme di storie che hanno l'inconfondibile marchio del vissuto, la prosa rapida e classica di Dovlatov dà un «ordine lirico» — è stato detto — a un caos naturale. E trascina in viaggi, lungo il percorso di una trama, in un mondo popolato di umoristi naturali, che esprimono la totale insensatezza esistenziale, la casualità che stringe nel paradosso ogni genere di personalità: siano essi i confusi emigrati ex dissidenti, siano gli stralunati ubriaconi, mezzi intellettuali mezzi barboni, suoi amici nell'URSS anni Settanta, come in questo romanzo.» |
|
«Rivisitazione letteraria della complessa storia d’amore tra Dovlatov e Asja Pekurovskaja, sua prima moglie, grande passione di gioventù, un rapporto burrascoso e morboso che aveva coinvolto Dovlatov profondamente e gli «aveva fatto perdere la tranquillità». Siamo in America nel 1981, il protagonista, Dalmatov, collaboratore di Radio Svoboda — una emittente che tentava di raggiungere la sterminata massa dei russi rimasti in balia della grottesca disinformazione di Stato, viene inviato a Los Angeles per un convegno sul futuro della Russia. Lì incontra la sua ex moglie Asja. Ritrovarla per caso a tanti anni di distanza, amarla di nuovo ora che lui si è risposato e ha due figli, gli creerebbe troppi problemi. No, Dalmatov/Dovlatov non vuole proprio riallacciare legami con quella donna che bussa alla sua stanza d'albergo. Anche Asja è emigrata negli USA, e ora è in difficoltà, sola, e per giunta incinta... Dovlatov racconta la sua storia d'amore su due piani cronologici: quello del presente — il 1981 — e i primi anni Sessanta a Leningrado. E il ricordo del passato giovanile e sovietico, si interseca con le giornate americane: dal convegno sul futuro della Russia si è sospinti all’indietro, verso la Russia del passato. Proprio in questo romanzo avvertiamo una certa nostalgia per la patria destalinizzata da Krusciov, per la Leningrado degli anni Sessanta piena di attrattive e vitalità, quando «avevamo la libertà e la giovinezza» ed era normale passeggiare lungo la Neva facendosi domande sulla letteratura. Sono pagine in cui Dovlatov offre del suo paese immagini che sorprendono per la vivacità della vita sovietica, che certo non corrispondono al cliché di una Russia grigia e tetra. La consapevolezza del lato buffo e paradossale della natura umana è ancora una volta la cifra della narrativa di Dovlatov che nel suo romanzo più autobiografico, non finisce di stupirci con la sua vena umoristica, l'autoironia, il rovesciamento delle situazioni che volge tutto in beffa.» |
|
Prefazione di Andrea Vitali. La voce del violino è la storia di una giovane donna assassinata, di un grande artista che vive da eremita e d'altro ancora. Soprattutto, è una storia di scambi: e Montalbano — delle cui vicende private rimaste in sospeso ne Il ladro di merendine seguiamo lo svolgersi — dovrà decidere se scambiare la propria esistenza per una nuova. |
|
«Prefazione di Simonetta Agnello Hornby. Questa volta Montalbano — preoccupato peraltro di evitare la promozione a vicequestore, che significherebbe compromissione burocratica e rinuncia ai propri capricci investigativi — sospetta l'esistenza di un collegamento tra due morti violente: quella di un tunisino imbarcato su di un motopeschereccio di Mazara del Vallo e quella di un commerciante di Vigàta accoltellato dentro un ascensore. Per Camilleri la Sicilia di oggi è fonte continua di ispirazione e di scoperta, di intrecci di romanzo poliziesco e di osservazioni su di un costume magari inquietante ma certamente non statico; soprattutto gli suggerisce un linguaggio, una parlata mai banale né risaputa. Tutto il contrario delle metafore viete e irritanti adoperate dagli uomini dei servizi segreti con i quali Montalbano si trova a scontrarsi duramente: figure retoriche sempre più incapaci di reggere il discorso della «ragion di stato» quando ormai, come osserva il nostro commissario, «praticamente serviamo due stati diversi».» |
|
«Prefazione di Michele Serra. Con La forma dell'acqua Andrea Camilleri nel 1994 dava vita al commissario che ha cambiato il poliziesco e forse anche il modo degli italiani di guardare a se stessi. Vent’anni fa, per la prima volta, il personaggio che avrebbe reso il siciliano un parlato familiare oltre i confini delle Alpi, sbuffava: «Montalbano sono!» Per celebrare il ventennale del commissario Montalbano Sellerio pubblica i suoi romanzi in edizione speciale.» |
|
Prefazione di Maurizio De Giovanni. Nel corso di un'inchiesta su di un traffico d'armi, ispezionando una caverna che funge da deposito di ordigni, Montalbano scopre un passaggio che conduce a un'altra grotta, e qui trova due cadaveri: un ragazzo e una ragazza uccisi cinquant'anni prima. Obbedendo all'istinto che lo spinge a ricercare una verità sbiadita e forse ormai inafferrabile, il commissario Montalbano inizia un'indagine improbabile, che cerca di ricostruire vicende apparentemente non destinate ad approdare in un'aula di tribunale. |
|